Attualmente, non esiste una terapia farmacologica in grado di curare l’IPF.
Tuttavia, negli ultimi anni sono stati sviluppati farmaci (in particolare, nintedanib e pirfenidone) che possono migliorarne il decorso e renderlo un po’ meno gravoso. Questi farmaci hanno maggiore efficacia se iniziano a essere assunti quando la malattia è in fase iniziale e nell’ambito della gestione di un team di specialisti: è quindi particolarmente importante ottenere una diagnosi specialistica precoce e poter fare riferimento a team medici multidisciplinari esperti nella gestione della IPF.
Nintedanib e pirfenidone sono già stati approvati dalle agenzie regolatorie sia in Europa (European Medicine Agency – EMA) sia negli Stati Uniti (Food and Drug Administration – FDA). Nintedanib è disponibile in Italia dal 22 aprile 2016. Invece, pirfenidone è prescrivibile ed in uso da tempo. Nintedanib è stato comunque usato nel nostro Paese nell’ambito di un programma di uso compassionevole, attivo fino al momento della commercializzazione del farmaco. Nintedanib, inoltre, è stato anche recentemente inserito tra i farmaci anti-IPF raccomandati dal National Institute for Health and Care Excellence (NICE) britannico, a ulteriore riprova non soltanto della sua sicurezza ed efficacia, ma anche del valore clinico per il sistema sanitario.
In base ai risultati clinici, i benefici offerti da questi farmaci consistono nella possibilità di rallentare l’evoluzione della malattia per alcuni anni (in modo variabile a seconda delle caratteristiche dell’IPF nel singolo paziente e dalla risposta di quest’ultimo), nella prevenzione delle riacutizzazioni e nella riduzione della mortalità. Assumendo questi farmaci fin da quando si manifestano i sintomi, si può rallentare la riduzione della capacità respiratoria e mantenere una maggiore funzionalità e una migliore qualità di vita.
Non ci si deve, invece, aspettare un miglioramento dei sintomi già presenti: un’attenuazione dei sintomi respiratori (in particolare, della dispnea) può essere ottenuto attraverso programmi di riabilitazione respiratoria, come allenamento controllato in palestra ed esercizi di respirazione.
In fase avanzata, invece, è soprattutto l’ossigenoterapia a ridurre l’impatto della perdita di funzionalità polmonare.
A oggi, l’unica terapia realmente in grado di eliminare l’IPF è il trapianto di polmone. Questa soluzione è, però, praticabile soltanto da una piccola quota di pazienti, sia a causa della difficoltà di trovare donatori compatibili sia perché il paziente che riceve il trapianto deve essere in condizioni cliniche sufficientemente buone per poter subire un intervento di questo tipo, decisamente impegnativo e ad alto rischio. In molti centri clinici i trapianti di polmone non vengono effettuati in persone con più di 65 anni.
Per valutare se è possibile avvalersi di questa soluzione e conoscerne i rischi e le implicazioni successive (riabilitazione respiratoria, terapia immunosoppressiva ecc.) è bene parlare approfonditamente con il medico del Centro di riferimento per la cura della fibrosi polmonare idiopatica.
Per il futuro, vengono studiate in modo particolare alcune molecole tipiche della malattia (biomarcatori) – soprattutto quelle denominate con le sigle MMP, MMP-7, SP-D e KL-6 – per elaborare terapie sempre più mirate, in base alle caratteristiche del singolo paziente.