È ormai dimostrato che la malattia denominata COVID-19, causata dal Coronavirus SARS-CoV-2, può provocare lesioni al polmone simili a quelle che si verificano nella fibrosi polmonare idiopatica (IPF), ovvero una reazione infiammatoria che lascia come conseguenza una fibrosi (che vuol dire “formazione di tessuto cicatriziale”) del polmone stesso.
Ma le similitudini non si fermano qui. Sappiamo in fatti che la malattia COVID-19 può presentarsi con una sintomatologia subdola che va da disturbi lievi del tratto respiratorio superiore a una grave mancanza di respiro (definita “sindrome da distress respiratorio acuto”). Ebbene, la situazione di grave mancanza di respiro è correlata proprio allo sviluppo molto rapido di una fibrosi del polmone. La fibrosi del polmone è confermata dall’esame della tomografia computerizzata (TC) del torace, che mostra il segno caratteristico delle “opacità a vetro smerigliato”, che ritroviamo anche nell’IPF.
C’è inoltre un aspetto molto interessante sulla tipologia di persone che sembrano essere più predisposte a una forma grave di COVID-19 e, conseguentemente, alla fibrosi polmonare. Ovvero, le persone più colpite sono quelle di età avanzata, di sesso maschile, fumatori e con malattie croniche concomitanti, come ipertensione arteriosa e diabete. È singolare notare che questi fattori di rischio sono gli stessi dell’IPF. In effetti, l’attuale ipotesi sull’origine della fibrosi polmonare da COVID-19 è che si sviluppi soprattutto a seguito di una reazione infiammatoria cronica, favorita da aspetti genetici e dall’età, come accade nella IPF.
Acquisite queste informazioni, i ricercatori si sono posti alcuni dubbi:
- le persone affette da IPF potrebbero essere ad aumentato rischio di COVID-19 grave?
- una volta guariti dalla COVID-19 può comunque svilupparsi la fibrosi polmonare?
- Le persone con COVID-19 potrebbero essere curate con gli stessi farmaci dell’IPF?
Alla prima domanda si può rispondere che probabilmente è vero: le persone con IPF potrebbero essere più vulnerabili a una forma grave di COVID-19. Però, al tempo stesso, la terapia anti-fibrotica, che solitamente è prevista per la cura dell’IPF, potrebbe avere un ruolo protettivo. Ciò conferma l’importanza di mantenersi aderenti alla terapia e alle prescrizioni del medico.
Anche per il secondo dubbio la risposta potrebbe essere affermativa. Non si può infatti escludere che, una volta guariti dall’attacco di COVID-19, possa comunque permanere una reazione fibrotica che progredisca col tempo (ma occorrono studi specifici per verificare questa ipotesi). In ogni caso, è importante che le persone guarite da COVID-19 continuino a essere monitorate per la possibilità dello sviluppo di fibrosi polmonare.
Infine, per quanto riguarda la terza questione, nonostante le conoscenze e le ipotesi sin qui esposte, non è stato ancora ben chiarito il ruolo della terapia anti-fibrotica (pirfenidone e nintedanib) – già comunemente utilizzata nei pazienti con IPF – nei pazienti che contraggono la COVID-19. Ciò è dovuto al fatto che finora, a causa della rapida diffusione pandemica del COVID-19, gli sforzi terapeutici si sono concentrati soprattutto nella gestione acuta della polmonite da COVID-19; i ricercatori e i clinici hanno quindi avuto poco tempo per valutare a fondo l’utilizzo dei trattamenti anti-fibrotici, sia nel trattamento di COVID-19 sia nella gestione dei pazienti con IPF in corso di pandemia. Le terapie anti-fibrotiche verranno però sicuramente prese in considerazione nei prossimi studi, perché questo tipo di farmaci hanno dimostrato di agire indipendentemente dalla causa della fibrosi, quindi potrebbero avere un ruolo molto importante nell’attenuare i possibili sviluppi pro-fibrotici della COVID-19